LA PRIMA VOLTA DI PIETRO ROMANO IN ‘MORTO PER MIRACOLO’ AL TEATRO TIRSO DE MOLINA DI ROMA
Dall’11 al 29 marzo 2015 va in scena al teatro Tirso de Molina di Roma la commedia comica ‘Morto per miracolo’ scritta diretta e interpretata da Pietro Romano, con Angela Tuccia, Pierre Bresolin, Sara Adami, Edoardo Camponeschi, Stefano Natale, Valeria Palmacci e Simone Zucca.
di Sebastiano Biancheri.
Dall’11 al 29 marzo 2015 al teatro Tirso de Molina di Roma va in scena lo spettacolo ‘Morto per miracolo’, commedia comica di tradizione scritta, diretta e interpretata da Pietro Romano che, dopo avere recentemente adattato alla romanità i classici di Goldoni e Molière, firma per la prima volta un testo interamente redatto di suo pugno e lo fa con la predisposizione e la consapevolezza di chi si accinge a proseguire un cammino da altri percorso e da troppo tempo interrotto. L’intento è di ridare nuova linfa al teatro dialettale colmando un vuoto di idee ormai datato e lo fa abbandonando la solita abusata cornice storica e le atmosfere rarefatte della Roma di fine ‘800 . Colloca quindi la narrazione a ridosso dei giorni nostri, intorno agli anni ’60. Remo è un furbetto di quartiere pieno di debiti che, ridotto in uno stato di catalessi provocata da congestione, viene dichiarato morto. Risvegliatosi la sera prima del funerale, decide di fare di necessità virtù, nonostante il disappunto della moglie Domenica, affranta e poi stravolta ma felice per l’inopinata ricomparsa del marito risuscitato. La finzione diviene lo strumento geniale per prolungare lo status di defunto, sparire per sempre e porre fine alle persecuzioni da parte di loschi figuri. L’ingannevole piano che escogita consiste nell’intascare il premio assicurativo postmortem; una burla che risolverebbe i guai di una vita di stenti e gli consentirebbe di sfuggire in tal modo, oltre che ai creditori, alle insopportabili difficoltà economiche. Un imbroglio in piena regola e ad alto rischio. Sembra invece l’uovo di Colombo. Dietro l’angolo la sospirata risurrezione e un futuro da nababbo. Occorre però disfarsi della presenza molesta e per giunta malefica della vicina di casa, Santa, una vecchia megera rompiscatole e ammazzamariti giunta al suo settimo sigillo. Per fortuna del nostro intrallazzatore, la solerte impicciona killer, penetrata in casa senza invito alcuno, si autoelimina per infarto con il contributo fatale del morto fantasma e viene provvidenzialmente accolta nella bara già destinata. Un altro guastafeste irrompe sulla scena e infastidisce ancor più la traballante tranquillità di Remo: è Sabato, vecchio cascamorto, per restare in tema, che gli insidia la moglie ignara e molto fedele, al riparo da qualsiasi tentazione. Remo supera anche la difficile prova della doppia identità; in veste di suocera risulta conturbante solo agli occhi dell’assatanato pretendente che si adegua alle circostanze uniformandosi al ‘basta che respiri’. Travestimento messo a repentaglio da un’incauta domestica. Si, perché c’è anche una cameriera, Placida, con limitazioni motorie, lenta di riflessi ma svelta di lingua… Il gran finale è da redenzione e mette tutti d’accordo. Remo, a una vita in clandestinità e fatta di artifizi, preferirà un nuovo corso, meno avventuroso e più onesto, deciderà di affrontare le proprie responsabilità e saldare il suo debito con la giustizia. Solo così potrà vivere con dignità e fierezza la storia d’amore con la dolcissima Domenica.
E’ un’opera prima e come tutti gli esordi risente di semplificazioni schematiche che sottendono intrusioni retrospettive non adeguatamente assimilate. L’autore avverte il peso di una urgenza arrembante che ne riduce in parte la spinta propositiva. Il tema non è propriamente insolito e gli intrighi e i colpi di scena sono a volte più evocati che narrati. Il limite dell’opera non risiede, a mio avviso, nella lentezza di una vicenda che stenta ad assumere contorni delineati, ma piuttosto in una trama non adeguatamente sorretta e innervata da cambiamenti sorprendenti e improvvisi da coup de théatre e che solo nel finale trova motivo di riscatto, al pari del protagonista. Avverti il bisogno di stupore pervasivo e incessante a cui l’immenso Pietro Romano ci aveva abituato. Solo parzialmente vengono colte le opportunità che la vicenda in sé reclama. I personaggi del parroco beone, don Dino, e del sacrestano, don Nino, sono due macchiette che rimangono ai margini, estranee e poco ‘coinvolte ’ dalla solennità del momento, duplicati dissonanti. Anche i personaggi di Fernanda e Nando, fruttivendoli amici esuberanti e strampalati di Remo e Domenica, non contribuiscono a sconvolgere, come se fossero mancanti, incompiuti, al contempo esagerati nella gestualità, alla ricerca della battuta facile e scontata; a volte talmente poco incisivi nella dinamica dell’ordito da sembrare paradossalmente superflui. E’ quasi assente la volontà di sviluppare i caratteri perché non rimangano allo stato embrionale, di tradurli invece in protagonisti determinanti. La commedia è il primo step di una sperimentazione che dovrà avere il seguito di prossime occasioni perché lascia intravedere comunque spunti e intuizioni brillanti che meritano di essere percorsi da approfondimento ulteriore. Di assoluto godimento le trovate della vicina invadente e del corteggiatore ‘a tutti i costi’. Struggenti e venate di delicato lirismo le scene del malore nel racconto del protagonista e dell’inebriante monologo finale; frammenti pervasi di sentimento autentico e bonomia d’altri tempi. Pietro Romano è il solito inarrivabile istrione, mattatore pigliatutto, fuoriclasse della risata; è Remo, sbruffone pentito dal cuore tenero. In scena è il numero uno perché sa fare tutto con irrisoria disinvoltura. Recita e canta, improvvisa a piacimento. Fa della spontaneità e della simpatia travolgente un’arma che ammalia. Lo vedremo presto ballare. Si avvale prevalentemente di attori attinti dal suo ’vivaio’ o comunque fiancheggiatori dell’ aura romanitatis di cui il Tirso è tempio esclusivo.
Angela Tuccia è Domenica, moglie di Remo. Rivelazione assoluta, una facondia elegante, misurata, perfetta, aderente sempre al personaggio delicato di donna innamorata. Una prestazione cristallina, spigliata e senza sbavature. Pierre Bresolin è Sabato, instancabile pretendente alla mano della vedova e anche della suocera, bandita ogni preclusione, nonché benefattore per interesse. Indimenticato dottor Purgone ne ‘Il malato immaginario’. Repertorio inesauribile di classici, professionista esemplare, globetrotter dei palcoscenici, spalla che ogni attore vorrebbe per sé, un gigante come caratterista. Sara Adami è Placida, la cameriera spettrale e indolente, ma anche Santa, la vicina di casa dispensatrice di iatture e mariticida supercollaudata. Vocazione comica incorporata, sprigiona tutta la sua energia negativa come strega rimanendone infine preda da superato numero di sortilegi. Come cameriera è troppo ridondante e ripetitiva da divenire stucchevole ma è un limite della parte e non è colpa sua. Formidabile. Edoardo Camponeschi è don Nino, il sacrestano veneto. Diligente e garbato come sempre, è sacrificato in un ruolo che ne riduce il potenziale. Di recente è stato un convincente Cléante, l’innamorato di Angelica nonché finto medico con la voce di Ollio ne ‘Il malato immaginario’ dello stesso autore. Prima ancora Valerio ne ‘L’avaro’. Impeccabile comunque ma nei ruoli ‘movimentati’ esprime al meglio il proprio virtuosismo. Stefano Natale è don Dino, parroco con il saio; prigioniero della propria caricatura, riesce a rendere teatrale una inespressività congenita che a volte funziona ma non può bastare. Più accettabile la sua interpretazione ne ‘L’avaro’ come Cleto, figlio bistrattato di Arpagone. Valeria Palmacci e Simone Zucca sono rispettivamente Fernanda e Nando, gli amici di Domenica e Remo. Esilaranti e scompaginati, non particolarmente addolorati per la dipartita, riempiono la scena, tanto assurdi e frizzanti da far dimenticare i limiti imposti dalla trama. Bravi e divertenti. La Palmacci è stata Elisa, tenera e determinata figlia adottiva di Arpagone. Ballerina oltre che attrice, fa parte della schiera eletta del Tirso, così come Simone Zucca, attore e valente musicista: ha curato fra l’altro le musiche de ‘Il marchese del Grillo’ e ‘Er conte Tacchia’.