IL RICORDO DELLA GRANDE GUERRA E DI EMILIO LUSSU TRA PAROLE E MUSICA
Al teatro dell’Orologio di Roma dal 27 al 29 marzo 2015 è andato in scena ‘Un anno sull’altipiano’, récital tra parole e musica di Daniele Monachella. Spettacolo liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Emilio Lussu. Voce narrante di Daniele Monachella, alla chitarra Andrea Congia, alle launeddas Andrea Pisu.
di Sebastiano Biancheri
Dal 27 al 29 marzo 2015 al teatro dell’Orologio di Roma è andato in scena lo spettacolo ‘Un anno sull’altipiano’, récital di teatro e musica ideato e interpretato da Daniele Monachella coadiuvato in scena da Andrea Congia (chitarra classica ed effetti) e Andrea Pisu (launeddas e percussioni). Il testo è liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Emilio Lussu. L’iniziativa rientra nell’ambito del programma governativo di commemorazione per il centenario della Grande guerra, richiamato a giusto titolo anniversario di interesse nazionale. Quello di Lussu è un libro facile a leggersi, a volte ironico, scritto in forma di réportage, memoriale a metà fra il resoconto giornalistico e gli appunti personali e familiari. Si tratta di un drammatico percorso autobiografico che narra le vicende di un anno di un conflitto aspro combattuto sull’altipiano di Asiago contro le truppe di occupazione austroungariche e bosniache. Fu una guerra di trincea oltre che di posizione quella che fra il giugno 1916 e il luglio 1917 vide impegnati i ‘Demonios’ della Brigata Sassari, reparto speciale a cui apparteneva l’autore in veste di graduato minore. E’ un documento che descrive il non senso della guerra, della gerarchia fanaticamente interpretata, di una rigorosa disciplina militare applicata per lo più a contadini, pastori analfabeti che per la prima volta avevano lasciato la loro terra per affrontare un destino atroce e incomprensibile. Da interventista convinto, Lussu diviene lucido testimone di una barbarie che gli farà conoscere e raccontare la profonda differenza tra i fatti e la loro conoscenza percepita dall’opinione pubblica con enfasi e sciaguratamente distorta dagli organi d’informazione dell’epoca. Vengono tratteggiate con maestria le figure di ragazzi semplici e onesti, la cui umanità, senso di giustizia e profonda dignità contrastava con la superbia e l’arroganza di ufficiali superiori inetti e assetati di gloria estrema. Episodi in cui l’esaltazione di pochi era il pretesto irrazionale ed emotivo di ogni arbitrio, di ogni strategia, di ogni assalto all’arma bianca favorito dallo stordimento col cognac che annebbiava le menti e infondeva delirante coraggio. La leggenda di quel reparto formato esclusivamente da giovani sardi che si distinsero per il valore e la determinazione con cui combattevano un nemico invisibile sarà la prova più alta mai composta prima di un’epopea irripetibile, dell’unione di un popolo finalmente coeso, non più ’pocos, locos e mal unidos’ come li definivano i dominatori aragonesi. Costituirà un importante laboratorio politico che si può definire, come ebbe a dire lo stesso Lussu, ’ il deposito rivoluzionario della Sardegna del dopoguerra’; era stato gettato il seme della questione sarda che coinvolgerà ampie fasce delle classi lavoratrici sarde. Tra questi protagonisti senza nome e senza volto, che avevano condiviso il dolore e la paura senza ribellione, assaporando a migliaia l’odore acre della morte, alla ricerca di un retaggio spirituale che ne riscattasse la storia, si era finalmente insinuata la coscienza dell’identità regionale che diventò poi sentimento di una comune tradizione culturale tre volte millenaria. E’ una vicenda di ‘uomini contro’, protagonisti di un’odissea infernale: il folle e spietato generale Leone, il ribelle anarchico tenente Ottolenghi, l’astuto soldato Giuseppe Marrasi disertore sfortunato, il fedele amico Avellini, l’anziano umile ‘zio Francesco’, il colonnello Stringari, gran bevitore, e molti altri muti e anonimi poveri diavoli rossi che non avrebbero più marciato sul proprio suolo.
Sono queste atmosfere, questi forti richiami che rappresentano l’humus culturale e storico dell’opera di Daniele Monachella, voce narrante, nel triduo prepasquale, del tributo alla patria di un manipolo di valorosi antieroi. E’ la testimonianza del messaggio morale contro ogni forma di scelleratezza umana di cui è permeata l’opera di Lussu e del ricordo struggente che quei combattenti onora al di là di ogni retorica. L’attore esegue una performance di rilievo assoluto contrassegnata da rigore e rispetto dei fatti, modulando i toni, ora confidenziali, ora drammatici, ora sprezzanti e deliranti, con una padronanza scenica che rivela doti di narratore elegante e misurato, sempre ispirato. Essenziale, mai ridondante o inappropriato. E’ in grado di tenere la platea a piacimento con cambiamenti repentini di situazioni, mettendo drammaticamente a confronto personaggi distanti per rango e onore, con un effetto emotivo coinvolgente di contrasto, potente dinamicità scenica e straordinaria comunicazione. Imperante sullo sfondo la solitudine fiera e compatta delle vittime sacrificali, sapientemente sussurrata, vigorosamente annunciata e ancor più omologata dal patto nella lingua dei padri che suggella l’appartenenza a una stirpe; fino al premonitore, liturgico, catartico urlo ‘Forza paris’ che ne consegnerà le anime al mito. Un superbo monologo a più voci che devasta, senza respiro, incalzante, reso ancor più delicato e disperato da un commento musicale particolarmente appropriato. Affidato alla chitarra di Andrea Congia e alle launeddas di Andrea Pisu, il contrappunto sonoro alla lettura è di mistica suggestione, di puro rapimento estatico, sostenuto da adattamenti acustici elettronici che conferiscono al racconto, assolutamente documentale, di fatti remoti, un’attualità sorprendente intimamente lacerante. Congia è un chitarrista etnomusicologo che fa della sperimentazione linguistico-musicale e delle applicazioni inesplorate che questa scelta determina, la propria singolare ragione esistenziale; veramente filosofo musicale senza soluzione di continuità. Pisu è un inarrivabile virtuoso delle ‘launeddas’, strumento a tre canne dal suono forte e metallico, che emette arcaiche polifonie della tradizione sarda oralmente tramandata, sacra e profana; gli è stato conferito il premio ‘Maria Carta’ nel 2005. E’ la magia della musica che incontra il teatro che diviene casa comune. La parola, nella sua grezza vocalità primordiale, è inadeguata, incapace a rendere ragione, ad esprimere l’urgenza. E’ la musica che significa la parola, consolida la narrazione, sublima e valorizza il sapere popolare e la memoria dei popoli. Siamo in presenza di due autentici funamboli del genere. Due fuoriclasse al servizio della narrazione, esteti di una concezione della musica senza tempo, universale perché partecipa delle trasformazioni in divenire pur mantenendo se stessa incontaminata nelle proprie sonorità arcaiche. Un narratore, Daniele Monachella, due musicisti, Andrea Congia e Andrea Pisu, per un memorabile concerto della nostra storia in un teatro di Roma, l’Orologio, inesauribile fucina che coniuga storia, tradizioni, avanguardia e sperimentazione tra parola e musica per giovani talenti.