DRAMMA FAMILIARE E COLPE GENERAZIONALI IN UNA MODERNA ‘AFFABULAZIONE’ EDIPICA
Al teatro dell’Orologio di Roma dal 12 marzo al 3 aprile 2015 è andato in scena lo spettacolo ‘Tutti i padri vogliono far morire i loro figli’, testo di Fabio Morgan Caselli e Leonardo Ferrari Carissimi, che ne cura altresì la regia. Liberamente ispirato ad ‘Affabulazione’ di Pier Paolo Pasolini. Con Mauro Santopietro, Luca Mannocci, Irma Ciaramella, Anna Favella e Chiara Mancuso.
di Sebastiano Biancheri.
Dal 12 marzo al 3 aprile 2015 al Teatro dell’Orologio di Roma è andato in scena lo spettacolo ‘Tutti i padri vogliono far morire i loro figli’, libero adattamento del dramma ‘Affabulazione’ di Pier Paolo Pasolini messo in scena dalla compagnia CK Teatro. Il testo è un’idea di Fabio Morgan, militante Direttore Artistico dello stabile, e di Leonardo Ferrari Carissimi, comune compagno di avventura che ne cura altresì la regia e il cast è composto da Luca Mannocci, Anna Favella, Mauro Santopietro, Irma Ciaramella e Chiara Mancuso. ‘Affabulazione’ è una tragedia che Pasolini concepì nel 1966 e, con Edipo Re e Teorema, segna l’inizio della sua produzione teatrale nell’analogo clima drammatico di una lacerazione interiore in cui predomina l’atteggiamento moralistico e provocatorio carico di contaminazioni mitiche e ideologiche. L’opera tratta il tragico rapporto conflittuale di odio-amore in uno stato di continua violenta tensione tra un padre industriale, visitato da una profonda crisi esistenziale con risvolti religiosi, che lo inducono a violare il segreto della vita del figlio, con un sentimento ambiguo di affetto e di possessione, e il figlio stesso. La felice normalità di costui è vista quale diversità e produrrà il proposito omicida nella mente delirante del padre, incapace di risolvere razionalmente il problema, abituato com’è a vedere materializzato ogni valore, per attribuire un senso definito al possesso. La conoscenza per il dominio è in lui più forte dell’amore in sé della conoscenza. La felicità del figlio è un mistero alle cui soglie la ragione deve sostare, ammonisce Socrate, a cui soltanto l’Arte può attingere, al di fuori dell’ingerenza paterna, oggettivando il figlio con la sua autonomia di uomo. Nel mistero consiste la felicità. Il modello mitico di Pasolini, che si pone al di là dell’opposizione presenza-assenza fino a comprenderla, è l’indizio di un’assenza mai superata e che rivela nondimeno una presenza sempre agognata. Si tratta di un’ulteriore sperimentazione linguistica che rivela l’esigenza di una totalità anelante al proprio senso unitario, in una sorta di quadro pansemiologico, in cui si compie finalmente l’itinerario della disillusione dell’Autore.
Da queste premesse occorre esordire perché da Affabulazione e dal contenutismo di Pasolini prende spunto il lavoro di Morgan e Ferrari Carissimi, moderno rovesciamento del mito edipico. La struttura narrativa, come il tema misterioso della predestinazione presente nel teatro greco, richiamano l’opera di Pasolini, discostandosene e in qualche misura stravolgendola per la necessità di esprimere il disagio e l’inadeguatezza di una discendenza originata dalla follia della contestazione di un’epoca e dei guasti che una forma distruttiva di narcisismo esistenziale ha comportato in termini di colpevole abdicazione, di risarcimento affettivo inconsolato per una generazione attonita, stuolo di orfani che assiste impotente alla morte dei propri padri. La rivolta di quegli anni era presunzione di rivoluzionari conformisti, prodotti della borghesia che ritenevano, in un delirante atto di superbia avvertita come onnipotenza, che il mondo finisse con loro, che la rimozione sublimasse la storia consegnandoli all’immortalità, che la dissacrazione potesse sostituirsi al mito. Non comprendendo che il passato si disvela nel presente come suo momento ineliminabile, che continua a nutrirlo, non prevedendo il proprio futuro. Lo stesso Pasolini non amava quei figli del ’68 privi di rispetto che volevano codificare l’incodificabile, che non si arrestavano davanti al mistero, accesi da spirito irrazionale di possesso senza freno, da un anelito di trasgressione che precipita verso l’autodistruzione. La storia non fa sconti e quando il tempo sacrale è profanato genera mostri seminando solitudine. In questa prospettiva Morgan e Ferrari Carissimi raccontano il ritorno a casa dopo quindici anni di Carlo, un fotografo sessantottino che, dopo aver abbandonato la famiglia borghese per rincorrere fuochi fatui, cerca il perdono di un figlio che non ha mai conosciuto e lo fa con il patetico annuncio di essere giunto ormai allo stadio terminale della sua malattia. Il figlio, venticinquenne studente di filosofia, non è disposto ad alcuna forma di riconciliazione e riversa sul padre il rancore e l’incomprensione per uno stato di frustrazione che la solitudine e l’affetto negato gli hanno procurato. Si tratta di un percorso di redenzione incompiuto perché non fino in fondo riconosciuto dal padre che si sottrae di proposito alla punizione e la dimensione onirica conferisce all’ordito una evanescenza spettrale introdotta dall’ incubo della prima scena e il risveglio conclusivo non sarà abbastanza evocativo a risolvere la dissociazione poiché il mistero non si può penetrare. Credo che il merito degli autori consista nel tentativo di riproporre la mimesi pasoliniana caricandola di funzioni simboliche e assumendo archetipi allusivi che, muovendo dalle radici oscure di un trauma interiore come Affabulazione, nella denuncia del peccato originale di omissione esprime condanna per il fallimento storico e politico di una generazione viziata e anaffettiva. E’ il giudizio duro e controcorrente che Pasolini dava di quei giovani amorfi libertari prigionieri di sovrastrutture strumentali, moralisti di maniera, più pericolosi dei loro padri borghesi. In ‘Tutti i padri…’ l’ermeneusi dei meccanismi freudiano e junghiano cosi come la conflittualità del dramma autobiografico di Pasolini sono soprattutto il pretesto per una denuncia di responsabilità univoche, tout court, a carico di una generazione di viziati figli di papà, in una sorta di semplificazione manichea che banalizza problematiche sociali ben più complesse. Il racconto poi è troppo carico, il detto è quasi urlato. In Pasolini il linguaggio del teatro si fa poesia; qui manca l’introspezione e la eterea poetica pasoliniana ne è quasi esclusa. Un fatto personale e familiare viene ricondotto a tema universale e l’assunto del titolo, pur provocatorio, annuncia un limite ideologico e sostanziale che ne riduce le intenzioni progettuali impedendo sviluppi dialettici meno arditi ma più documentali. Tutto rimane troppo avvolto all’interno di un ambito familiare, dramma di interni soffocato da un’aura patriarcale incombente e l’analisi politica è distante, sullo sfondo, più annunciata che rappresentata.
La tematica non è sempre sorretta da adeguata impalcatura formale che ne supporti l’intreccio, la lettura proposta è una forzatura pleonastica e la recitazione spesso autoammiccante e compiacente, scade nella parodia. Il risultato, confuso e contradditorio, è imbarazzante.
‘Tutti i padri…’ appare in sintesi un atto di venerazione mistica impropriamente tributato al proprio nume tutelare, un velleitario sforzo di riscrittura della storia oltre misura, un tentativo rabberciato e ‘di opportunità’ più che amore della verità. Si avverte costante la presenza di un residuo intellettualistico, di un’icona che si sovrappone secondo uno schema precostituito. Il problema personale che in Pasolini diviene un fatto generale e politico, in ‘ Tutti i padri…’ è la chiave che da sola, ambiziosamente, decifra l’enigma del dramma. E ancora, gli eccessi dell’allestimento di Ferrari Carissimi, tradotti anche nella ostentazione di amplessi e di pratica di onanismo, sono avvertiti come stucchevoli, inopportuni, estranei alla vicenda e non riescono a tradurre autenticamente la crisi perenne dell’Autore, erede di una cultura razionalistica che si accanisce, nel proprio atto di appropriazione conoscitiva, in un allucinato, infantile e pragmatico amore per la realtà, amore anche e soprattutto religioso, che si fonda con una sorta di immenso feticismo sessuale, in un trasporto totale fatto di rispetto venerante e di urgenza di violare tale rispetto con dissacrazioni violente e scandalose.
Gli attori. Mauro Santopietro è Carlo, caricatura di padre tormentato, troppo goffo e poco convincente. Interessante comunque la figura di un Peter Pan immaturo, incapace di crescere, coetaneo del figlio. Luca Mannocci è il figlio sofferente e vilipeso, novello Edipo che tradisce il mito e si fa assassino di se stesso, soccombente e incapace di reagire alla ingombrante eredità paterna; un giovane attore straordinario, dall’enorme talento drammatico. Irma Ciaramella è la moglie tradita e disillusa di Carlo e madre ansiosa, attrice di spessore e a suo agio nel doppio ruolo. Anna Favella è l’ammiccante fidanzata senza scrupoli dello sventurato protagonista; brava e disinvolta. Chiara Mancuso è la intrigante, ambigua cartomante con relazione trasversale. La scenografia di Alessandra Muschella alla Edward Hopper, con spazi metafisici atemporali e i diversi piani interno/esterno che adombrano la solitudine della vita, è intuizione felice. Efficace il disegno di luci di Antonio Scappatura che ricostruisce i chiaroscuri dei rapporti umani e delle compresenze uomo/donna, padre/figlio. Come emotivamente forte e di effetto il corpo del figlio appeso nella penombra che viene ignorato dai genitori intenti in futili conversazioni; metafora dell’aberrazione umana.